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L’intermittenza dell’oblio – Alessandro Toppi
Una ricerca dice che il 55% degli spettacoli che vanno in scena in Campania avvengono a Napoli e che la gran parte d’essi appartiene al pezzo di città che chiamiamo “centro storico”: un groviglio di piazze, strade o di saittelle in cui ci rechiamo per assistere a una recita: seduti nella grande platea, accucciati nella sala minuscola. Affolliamo dunque un fazzoletto urbano – lì dov’è il teatro dei teatri – e per farlo compiamo un tragitto ormai consueto, sempre il medesimo percorso. La scoperta dell’altrove, insomma, la deleghiamo solo al palco: avamposto sul quale speriamo avanzi l’o-sceno, appaia l’extra-ordinario. L’Efestoval invece comporta innanzitutto il cambio di rotta, una variazione del cammino: induce a lasciarci alle spalle Napoli, il suo centro storico, il teatro fatto nei teatri, e ci obbliga all’erranza oltre i confini – mentali e fisici – dell’abitudine: un altro luogo ci attende, presupposto perché ci attendano altri volti, altre voci, altre biografie.
Qui arriviamo da singoli stranieri, da qui ce ne andremo dopo esserci sentiti membri di una comunità: minoritaria ed assoluta, intensa e momentanea. Cosa ci è accaduto? Abbiamo ripreso contatto con i fondamenti arcaici ed eterni del teatro, fondamenti che in buona parte coincidono col bisogno che abbiamo di incontrare l’altro, di accoglierlo in silenzio e di ascoltarlo mentre narra una storia che forse è la sua e che – ci accorgeremo gradatamente – dice anche di noi. La scelta di stare proprio qui, ora; la tridimensionalità ravvicinata del corpo, “scandalosa” nell’epoca dei selfie; il valore primigenio dell’oralità, per cui la parola torna ad essere formula chimerica, chiamata degli assenti alla presenza, tempo spazializzato durante il quale si celebra un’evocazione, rito da antico focolare.
Si tratta di un processo che nulla ha a che fare con la teatralità istituzionalizzata, che a una folla di clienti spaccia spesso merce preconfezionata che di grande ha solo i costi produttivi, dovuti allo spreco di risorse pubbliche. All’Efestoval, invece, l’attore ridiventa un catalizzatore di presenze invisibili e inattuali, compiendo «gli sponsali del tempo antico con quello di adesso» direbbe Georges Banu, mentre quest’arte che chiamiamo “teatro” si rifà intermittenza dell’oblio, esperienza effimera e perciò irreversibile, votata a una cancellazione dopo la quale nessuno avrà più accesso all’opera: a quel che è stato detto e intravisto, a quel che è avvenuto tra chi c’era. È in questo modo che all’Efestoval una scuola riaccoglie il verso del poeta, che risorge come risorge su una spiaggia l’alba ogni mattino; che lo spiazzo di un parcheggio torna ad essere un campo di pallone, perché si rigiochino le partite di una volta; che un ufficio comunale diventa, per una sera, un arsenale di racconti. È in questo modo, aggiungo, che il teatro dimostra di poter essere ancora la metafora migliore del nostro passaggio sulla terra, il riflesso scenico dello spettacolo cui diamo vita vivendo, sul palco del mondo, dalla nascita alla morte: esistenza, la nostra, di cui non lasceremo – agli altri – che il ricordo.
Questa prassi poetica costituisce tuttavia anche un atto politico giacché, come scrive Franco D’Ippolito, «un festival è un intreccio indissolubile di implicazioni artistiche e organizzative». L’Efestoval non si colloca in un posto ma vi appartiene in modo identitario e radicale e, di questo posto, ne favorisce la conoscenza, ne provoca una confessione. Non solo: chiama a raccolta la cittadinanza e, in particolare, i suoi estremi generazionali – gli anziani e i giovani – determinando una contaminazione inedita, un passaggio di consegne civile e memoriale. Ancora: coniuga e rafforza, in forme artistiche, quella presa in cura del territorio nella quale le ragazze e i ragazzi dell’Efestoval sono impegnati tutto l’anno con l’associazionismo, il volontariato, l’atto concreto e quotidiano. Inoltre: risponde al bisogno di decentramento artistico, fomenta il bisogno ulteriore di bellezza, incide criticamente sull’esistente, rifiuta il business dell’intrattenimento e diventa alternativa all’estetica commerciale dominante, modifica la qualità delle relazioni personali e rafforza la resistenza culturale di un luogo, delle sue lingue e delle sue visioni, che nei tempi dell’omologazione capitalistica rischia altrimenti di essere travolto, di diventare l’ennesima lucciola scomparsa. Imponendo una diversità (geografica, drammaturgica, esperienziale) l’Efestoval ribadisce la propria unicità: ragione umana – direi umanissima – per la quale merita ogni volta di essere vissuto.
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